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La dissociazione della partecipazione azionaria

La proprietà azionaria, tradizionalmente unitaria, si articola in due componenti: una finanziaria (proprietà economica), rappresentata dai flussi di cassa generati dall’investimento, ed una corporativa (proprietà giuridica), che si esprime nei diritti e nelle prerogative riconosciute all’azionista in quanto titolare della partecipazione. Il concetto di decoupling si riferisce alla scissione tra queste due componenti della proprietà azionaria.

 

Dal fenomeno del decoupling derivano due manifestazioni distinte ma strettamente correlate, che rappresentano le due facce del rapporto giuridico generato per mezzo dello strumento derivato: l’empty voting e l’hidden ownership.

 

L’empty voting si verifica quando la legittimazione all’esercizio del diritto di voto spetta ad un soggetto che non è esposto al rischio economico. Tale soggetto risulta dunque immune, sotto il profilo personale, dalle conseguenze negative che una decisione dannosa potrebbe arrecare alla società, al suo patrimonio o al valore delle azioni. Ne consegue un concreto pericolo di scelte arbitrarie o irragionevoli, se non addirittura deliberate in danno della società o degli altri azionisti, al fine di perseguire interessi alieni allo scopo sociale.

 

L’hidden ownership, d’altro canto, si verifica quando un soggetto acquisisce la proprietà economica del titolo, e con essa il rischio d’investimento tipico dell’azionista, senza tuttavia ottenere il corrispondente diritto di voto. In questo contesto, il titolare della proprietà economica potrebbe comunque cercare di influenzare il detentore formale del diritto di voto, chiedendo, ad esempio, che quest’ultimo si esprima in linea con i propri interessi. Si parla, in tal caso, di hidden (morphable) ownership, per indicare una situazione in cui la proprietà economica, sebbene formalmente separata dal diritto di voto, consente di esercitare informalmente un’influenza sulla volontà assembleare, dando luogo a una forma occulta di potere di voto.

 

Il fenomeno della dissociazione, decoupling, si realizza prevalentemente attraverso i cash-settled equity derivatives: contratti derivati aventi come sottostante titoli azionari, ma regolati esclusivamente in contante. L’acquisto di tali strumenti costituisce un investimento sintetico, distinto dall’acquisto diretto di azioni, che consente tuttavia di replicarne l’andamento nel tempo, inclusi i movimenti del prezzo e le distribuzioni effettuate dalla società durante il periodo di investimento. In virtù della natura artificiale di questa operazione, l’investitore non acquisisce diritti sociali diretti nei confronti della società. Tuttavia, non può escludersi che, in virtù di specifiche clausole contrattuali o di determinate dinamiche negoziali e di mercato, l’investitore possa comunque ottenerne la possibilità.

 

I Contratti Derivati

 

I contratti derivati, secondo la definizione economica comunemente accettata, sono strumenti il cui valore “deriva” dall’andamento di un’attività finanziaria sottostante (underlying asset) o da un parametro di riferimento, quale un indice di borsa, un tasso d’interesse o un tasso di cambio. Questa ampia categoria di contratti comprende strumenti atipici di natura finanziaria, caratterizzati dalla negoziazione a termine di un’entità economica e dalla valorizzazione autonoma del differenziale risultante dal confronto tra il prezzo pattuito al momento della stipulazione e il valore che l’entità assumerà alla scadenza prevista per l’esecuzione.


Qualificazione giuridica

 

La ricostruzione di una definizione giuridica unitaria del contratto derivato si è sempre rivelata particolarmente complessa. Tale difficoltà deriva dal fatto che i derivati costituiscono dei contratti alieni, elaborati sulla base di modelli negoziali anglosassoni “senza tenere in alcun conto del diritto italiano, ma al quale si applica il diritto italiano, di solito a seguito di un’espressa scelta delle parti”. Si potrebbe così dire che i contratti derivati, originati nel commercio internazionale, siano stati importati nell’ordinamento italiano così come sono stati elaborati.

 

Una prima criticità nella qualificazione dei contratti derivati emerse fin da subito in relazione alla traduzione letterale dell’aggettivo inglese derivative. Secondo la Dottrina tradizionale, un contratto derivato è inteso come un contratto che “discende e dipende da un altro contratto concluso separatamente (contratto principale)”. Esempi tipici sono il sub-appalto, il sub-mandato, la sub-locazione, il sub-affitto, il sub-trasporto e il sub-noleggio. In questa prospettiva, il contratto derivato ha una natura accessoria rispetto al contratto principale, facendo sorgere “un diritto nuovo, prima non esistente, sebbene di contenuto identico o analogo a quello di un diritto già esistente”. Ne consegue che eventuali vizi o limiti all’efficacia del contratto principale si riflettono automaticamente anche sul contratto derivato.

 

Tuttavia, tale relazione di accessorietà è assente nei contratti derivati in ambito finanziario, i quali sono caratterizzati da un collegamento di natura meramente finanziaria. Come evidenziato da parte della Dottrina, le vicende giuridiche che interessano il sottostante (contratto principale) non producono effetti diretti sul contratto derivato. Il concetto tradizionale di derivazione, dunque, non trova applicazione in questo contesto ed assume un significato del tutto diverso. La derivazione, infatti, si riferisce al fatto che “il valore del contratto dipende — derives — dall’andamento di attività, tassi o indici di riferimento sottostanti”, senza che tra i due vi sia un legame giuridico di natura accessoria.

 

Per quanto la caratteristica essenziale di questi strumenti finanziari risieda nel meccanismo economico che ne governa il funzionamento, la loro qualificazione giuridica non può esaurirsi in tale aspetto. Ciò vale anche in considerazione del fatto che il legislatore, introducendo tali strumenti nell’ordinamento, non ha fornito una definizione generale di contratto derivato. Si è infatti adottato un approccio di tipo analitico, elencando specificamente le tipologie di contratti riconducibili alla categoria dei derivati. In particolare, l’articolo 1, comma 2-ter, lettera a) del Testo Unico della Finanza (TUF) include, tra gli strumenti finanziari derivati i contratti di opzione, i contratti finanziari a termine (futures e forwards), gli swaps, gli accordi per scambi futuri relativi a valute, tassi di interesse, merci, i contratti su strumenti derivati legati a variabili climatiche, tariffe di trasporto, tassi di inflazione e altre statistiche economiche ufficiali ed ulteriori tipologie contrattuali.

 

Per quanto oggi la dottrina, seppur non unanimemente, definisca il contratto derivato come “contratto bilaterale, ad esecuzione differita, caratterizzato da una forte e connaturata componente di aleatorietà, avente a referente un’entità economica, reale o astratta, e ad oggetto il differenziale di valore assunto nel tempo da tale entità”, è inevitabilmente necessario analizzare le singole tipologie di derivati per offrirne una specifica qualificazione.

 

Il contratto derivato secondo l’impostazione dell’art. 1325 del Codice Civile

 

Per quanto ciascuna tipologia di contratto derivato presenti specifiche peculiarità con riguardo all’elemento dell’accordo, è tuttavia possibile individuare, in via generale, gli ulteriori requisiti essenziali del contratto ai sensi dell’art. 1325 c.c.

 

In particolare, secondo parte della Dottrina, l’oggetto di tutti i contratti derivati risiederebbe nell’acquisto del “differenziale prodotto dalla comparazione fra i due prezzi” – alla stipulazione e alla scadenza – del sottostante preso come entità di riferimento, valore che coinciderebbe con quello del derivato stesso. Tale impostazione, tuttavia, non è condivisa da altra parte della Dottrina, secondo cui sarebbe inopportuno ricercare una definizione unitaria e onnicomprensiva per fenomeni contrattuali così eterogenei.

 

Accogliendo tale orientamento, il contratto derivato potrebbe essere paragonato ad un contratto a termine, ove, tuttavia, il differenziale, anziché essere l’effetto del contratto (e l’oggetto la compravendita di un bene), è l’oggetto stesso. Tale caratteristica, peraltro, non sembrerebbe essere messa in dubbio neppure nel caso in cui il contratto preveda la possibilità di adempimento mediante consegna del sottostante, in alternativa al regolamento in contanti, nella misura in cui questo comunque non inciderebbe sulla finalità perseguita, che resterebbe sempre la “percezione di una differenza e non già l’apprensione dell’attività [sottostante]”.

 

Tale impostazione è stata peraltro recepita dalla giurisprudenza, dapprima con la sentenza 27 marzo 2000 del Tribunale di Milano, e, successivamente, dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 52 del 201058. In quest’ultima viene sancito che “ferme ovviamente restando le diversità legate al tipo di operazione prescelto, tali negoziazioni [in strumenti derivati] sono volte a creare un differenziale tra il valore dell’entità negoziata al momento della stipulazione del relativo contratto e quello che sarà acquisito ad una determinata scadenza previamente individuata”.

 

Anche la causa del contratto derivato è stata oggetto di un acceso dibattito dottrinale. In un primo momento, infatti, i contratti derivati con finalità speculativa vennero assimilati ai contratti di giuoco e scommessa, con conseguente applicazione dell’art. 1933 c.c. Tale impostazione è stata tuttavia superata con l’entrata in vigore del D.lgs. 415/1996, che afferma esplicitamente che “agli strumenti finanziari derivati [...] non si applica l'articolo 1933 del codice civile”. A seguito di ciò, la causa di tali contratti è stata generalmente individuata nello scambio dei reciproci impegni delle parti all’assunzione di una quota del rischio altrui, indipendentemente dalla verifica della reale esistenza di tale rischio.

 

In altri termini, il rischio non deve necessariamente riferirsi a una posizione preesistente assunta dalle parti, ma va individuato in quello connesso e parametrato al valore che l’attività sottostante assumerà alla scadenza del contratto, e dunque al valore del differenziale oggetto del contratto. Di conseguenza, a nulla rileverebbe la specifica funzione concretamente perseguita dalle parti mediante la sottoscrizione di un derivato. Il derivato si rivelerebbe così “uno strumento neutro tale da soddisfare le esigenze di tutti gli investitori sul mercato finanziario”. Tuttavia, anche tale impostazione non sembra essere unanimemente riconosciuta.

 

Infine, la forma del contratto, l’art. 23 del TUF richiede espressamente – nei rapporti tra intermediari finanziari ed il pubblico nell’ambito dei contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento (c.d. contratti di investimento) – la forma scritta ad substantiam. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23927 del 2018, ha specificato come la suddetta condizione sia comunque rispettata con la sola firma del cliente. Non è dunque richiesta la sottoscrizione anche da parte dell’intermediario, nella misura in cui la nullità di cui all’articolo 23 si configura come una nullità di protezione del cliente, e cioè nell’esclusivo interesse e vantaggio di quest’ultimo. La stessa Corte ha infine chiarito come tale requisito valga solo per la sottoscrizione di contratti-quadro, mentre per i singoli ordini di investimento prevale il principio di libertà della forma.


I derivati come contratti alieni

 

Il contratto derivato è generalmente elaborato sulla base dei modelli contrattuali predisposti dall’ISDA. Secondo la Dottrina, tali modelli non coincidono con veri e propri contratti nel senso tecnico-giuridico del termine, bensì rappresentano dei “prodotti giuridicamente apolidi”. Questa scelta deriva dal fatto che i derivati vengono scambiati sui mercati finanziari internazionali, operando quindi in una pluralità di ordinamenti giuridici. Per agevolare la comprensione e l’utilizzo da parte degli operatori economici internazionali, nella predisposizione di tali modelli si è preferito adottare un’impostazione basata non tanto sul diritto dei singoli ordinamenti, quanto sul funzionamento economico-finanziario del derivato stesso.

 

Così, se taluni prodotti finanziari si diversificano giuridicamente sulla base dell’ordinamento giuridico di provenienza (come accade nel caso, ad esempio, delle azioni), “non avrebbe invece senso distinguere un derivato “americano” da uno “italiano”, semplicemente perchè sono uguali”. Nel loro linguaggio economico, infatti, gli accordi delle parti dei singoli contratti derivati sono pienamente riconoscibili anche da interpreti che operano in altri ordinamenti, ciascuno dei quali esprimerà una autonoma qualificazione giuridica.

 

La funzione dei derivati

 

I contratti derivati, grazie alla loro struttura, si contraddistinguono per il loro carattere anticipatorio rispetto alle fluttuazioni delle attività sottostanti. Per questa ragione, si prestano tanto a finalità di copertura dei rischi quanto a scopi speculativi.

 

La funzione di copertura di un derivato, cosiddetta di hedging, consente agli operatori economici di proteggersi dai rischi finanziari, in particolare legati alle fluttuazioni di valore del bene o di una grandezza economica (come valute, tassi di interesse o materie prime). Il derivato viene così utilizzato come strumento per ridurre l’esposizione ai rischi di mercato, permettendo alla parte che sottoscrive il contratto di derivato di fissare un prezzo futuro per l’acquisto o la vendita dell’attività sottostante, o di compensare potenziali perdite in caso di variazioni dei prezzi.

 

D’altro canto, gli strumenti derivati presentano una natura intrinsecamente speculativa, finalizzata a trarre profitto nel breve termine dalle fluttuazioni future del prezzo di un’attività sottostante. Gli operatori di mercato ricorrono a tali strumenti per realizzare operazioni di immediata monetizzazione, sfruttando le variazioni di valore dei sottostanti a proprio vantaggio.

 

Se, come accennato, parte della dottrina ritiene irrilevante la distinzione tra finalità speculativa e finalità di copertura, altri autori sostengono che tali funzioni non possano essere equiparate. La natura speculativa sarebbe infatti intrinseca agli strumenti derivati, mentre la funzione di copertura, meramente eventuale, potrebbe essere riconosciuta solo in presenza di elementi esterni all’operazione, idonei a qualificare l’intento dell’investitore. Se per speculazione si intende qualsiasi operazione volta a realizzare un guadagno in conseguenza delle variazioni delle quotazioni di mercato, è evidente come tale finalità appartenga ad ogni contratto derivato. La funzione di hedging, di conseguenza, non può che porsi su un piano aggiuntivo all’ontologico fine speculativo di questi contratti.


Le tipologie di contratti derivati

 

L’evoluzione dell’ingegneria finanziaria ha determinato la nascita di una vasta gamma di contratti derivati. Per comprenderne la natura, è necessario analizzarne la classificazione secondo una pluralità di criteri, ciascuno dei quali incide sulla funzione economica e giuridica dell’operazione.

 

Un primo elemento distintivo risiede nel mercato di negoziazione. I contratti derivati possono essere scambiati su mercati regolamentati, come le Borse Valori, oppure al di fuori di essi, in mercati cosiddetti Over The Counter (OTC). Mentre i primi garantiscono un elevato grado di standardizzazione e trasparenza, i secondi si caratterizzano per la flessibilità contrattuale, che consente alle parti di modellare liberamente il contenuto dell’accordo, pur esponendosi a un rischio maggiore.

 

Un secondo parametro di classificazione riguarda il tipo di entità, o sottostante, cui il derivato fa riferimento. In alcuni casi, il sottostante può essere rappresentato da merci, come il petrolio o altre materie prime. In altri, si tratta di attività finanziarie, quali azioni, obbligazioni, valute o indici di mercato. Esistono poi strumenti più innovativi, collegati a variabili di natura extra finanziaria, come le condizioni atmosferiche, nel caso dei derivati meteorologici.

 

Non meno rilevante è il grado di complessità dello strumento. Alcuni derivati, detti plain vanilla, sono caratterizzati da una struttura lineare e di agevole comprensione. Altri, invece, risultano dalla combinazione di più strumenti o dall’inserimento di clausole strutturate, dando luogo ai cosiddetti derivati esotici, frutto di una sofisticata ingegnerizzazione finanziaria e spesso destinati a soddisfare esigenze specifiche.

 

Infine, si distingue tra derivati che prevedono il regolamento fisico, mediante la consegna effettiva del bene sottostante, e quelli che si chiudono con il pagamento della differenza di valore in contanti.


La distinzione tra derivati physical-settled e derivati cash-settled incide esclusivamente sulla fase esecutiva del contratto, senza tuttavia alterarne la natura. L’oggetto del contratto derivato, identificato nel differenziale tra il prezzo del sottostante pattuito al momento della stipulazione e il valore che tale sottostante assumerà alla data di scadenza, rimane infatti invariato anche qualora l’esecuzione avvenga mediante consegna fisica del bene. In ogni caso, la tipologia più diffusa sul mercato è rappresentata dai derivati cash-settled, che, per lungo tempo, non sono stati oggetto di specifici obblighi di disclosure e si sono perciò prestati ad abusi e a comportamenti opportunistici.

 

Future


Il future è il contratto mediante il quale acquirente e venditore si obbligano a scambiarsi una determinata quantità di una specifica attività finanziaria o reale (attività sottostante, che può consistere in un’azione, un’obbligazione, un tasso di interesse a lungo termine, un tasso a breve, una valuta, un indice azionario o una merce), a un prezzo prefissato e con liquidazione differita ad una data futura prestabilita.

 

L’operatore che acquista il future (ossia colui che si impegna ad acquistare il sottostante alla scadenza) assume una posizione lunga (long), mentre l’operatore che vende il future assume una posizione corta (short). Alla scadenza, qualora il prezzo di mercato del sottostante risulti superiore a quello pattuito, l’acquirente realizzerà un profitto, in quanto acquisirà il bene a un prezzo inferiore rispetto al valore corrente di mercato. In senso inverso, il venditore subirà una perdita corrispondente, avendo convenuto un corrispettivo inferiore rispetto a quello ottenibile sul mercato al momento della scadenza.


Il future è un contratto simmetrico, in quanto entrambi i contraenti assumono obbligazioni da eseguire alla scadenza. A differenza delle opzioni, tali contratti non attribuiscono al compratore una facoltà di scelta, bensì impongono a entrambe le parti obbligazioni vincolanti. Di conseguenza, non è previsto alcun pagamento iniziale (premio) da parte del compratore.

 

Il mercato dei futures si caratterizza per la presenza di un intermediario, la clearing house, che svolge le funzioni di garante e di ente di compensazione. Tale soggetto si assicura che le parti adempiano alle obbligazioni connesse agli utili e alle perdite potenziali, proteggendo il mercato dal rischio di inadempimento dei partecipanti. I contratti futures, pertanto, non sono conclusi direttamente tra le parti interessate, bensì ciascuna di esse stipula un contratto con la Cassa di Compensazione e Garanzia, la quale si interpone tra i contraenti, divenendo controparte diretta di ciascuna transazione.

 

Il contratto di future nasce con una funzione di copertura (pur potendo essere utilizzato anche per finalità puramente speculative) ed è considerato la forma più elementare di contratto derivato. Di conseguenza, ogni tipologia di derivato, pur con le proprie peculiarità, si fonda sugli elementi strutturali propri del contratto future.

 

Tra le diverse tipologie di futures, particolare rilievo assumono l’interest rate future e il currency future. Il primo consiste in uno strumento finanziario negoziato su tassi di interesse, utilizzato dagli operatori al fine di tutelarsi dal rischio di perdita di valore dei titoli obbligazionari detenuti in portafoglio. Il currency future, invece, implica l’acquisto a termine di valute estere. Tale contratto si basa su una previsione dell’andamento dei tassi di cambio e consente di predeterminare l’importo che, a una data scadenza, un operatore sarà tenuto a trasferire alla controparte contrattuale.

 

Option

 

L’option è quel particolare tipo di contratto che attribuisce al titolare il diritto, ma non l’obbligo, di acquistare (call option) o vendere (put option) una determinata quantità di beni (attività sottostante) ad un prezzo prefissato (strike price), entro una data prestabilita, a fronte del pagamento di un premio non rimborsabile.

 

La principale peculiarità che distingue le opzioni dagli altri strumenti derivati risiede nella facoltà riconosciuta al titolare di recedere: questi, infatti, non è vincolato all’esercizio dell’opzione, ma può decidere di attuarla qualora ciò risulti economicamente vantaggioso. Per tale motivo, le opzioni sono qualificate come strumenti derivati asimmetrici.

 

Le opzioni trovano applicazione sia in operazioni a finalità speculativa sia in strategie di copertura. Sotto il profilo finanziario, esse consentono al beneficiario di circoscrivere le eventuali perdite al solo importo del premio versato, mantenendo allo stesso tempo la possibilità di conseguire un utile in caso di variazione favorevole del valore del sottostante. Allo stesso tempo, la controparte ottiene un profitto minimo pari al premio, assumendosi però il rischio di rinunciare all’incremento di valore dell’attività sottostante.

 

Le opzioni si articolano in diverse tipologie. Una prima fondamentale distinzione è tra call option e put option: nel primo caso, il titolare ha il diritto di acquistare l’attività sottostante dalla controparte; nel secondo, ha il diritto di venderla. In secondo luogo, è possibile distinguere le American options e le European options. Le prime possono essere esercitate in qualsiasi momento tra la data di stipulazione e quella di scadenza, comportando per questo un cambiamento graduale del prezzo di esercizio. Le seconde, invece, possono essere esercitate solo alla data di scadenza, senza possibilità di esercizio anticipato.

Su tali modelli, l’ingegneria finanziaria ha sviluppato strumenti ancora più sofisticati, comunemente denominati exotic options. Tra questi si annoverano:

  • packages, ossia portafogli diversificati contenenti call e put europee standard, contratti forward, disponibilità liquide e la stessa valutazione del sottostante;

  • opzioni americane fuori standard, nelle quali l’esercizio può essere effettuato in qualsiasi momento ma lo strike price resta invariato;

  • opzioni Bermudian, che prevedono la possibilità di esercizio anticipato solo in date predeterminate tra la stipulazione del contratto e la scadenza;

  • compound options, in cui l’esercizio viene rifissato a scadenze periodiche e non è predeterminato in sede di stipulazione;

  • ladder options, in cui il prezzo di esercizio è stabilito al momento della stipulazione, ma incrementa progressivamente nel tempo.

 

Swap

 

Gli swap costituiscono la categoria più diffusa tra gli strumenti derivati, in quanto caratterizzati da un’elevata flessibilità che consente di adattarne la struttura alle esigenze specifiche delle controparti contrattuali.

 

Non essendo oggetto di una definizione normativa, è intervenuta la giurisprudenza a fornire chiarimenti in merito alla loro configurazione. In particolare, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10598 del 2005, ha qualificato lo swap come “quel contratto aleatorio con cui le parti si obbligano reciprocamente all’esecuzione, l’una nei confronti dell’altra, alla scadenza di un termine prestabilito, di una prestazione pecuniaria il cui ammontare è determinato da un evento incerto”. Con la precedente sentenza n. 5114 del 2001, la stessa Corte ha definito lo swap come “quel contratto in cui due parti convengono di scambiarsi, in una o più date prefissate, somme di danaro calcolate applicando due diversi parametri (in termini di tassi d’interesse o di cambio) a un identico ammontare di riferimento, con il pagamento alla scadenza concordata di un importo di base netto, in forza di compensazione”.


Il contratto di swap si caratterizza dunque per lo scambio di flussi di cassa tra due controparti, calcolati con riferimento a uno strumento o a un’attività finanziaria sottostante. Tali flussi, di segno opposto, sono previsti in date certe e predeterminate dal contratto e, frequentemente, si articolano in più scadenze. I flussi riferibili ad almeno una delle due controparti sono di entità nota ab origine, come nel caso di una quantità di valuta, di un tasso d’interesse fisso, o del premio in un credit default swap (CDS).

 

Tra i diversi schemi contrattuali, è possibile individuare tre categorie principali di swap:


  • Interest rate swap. Si tratta di un contratto che prevede lo scambio periodico di flussi di cassa, aventi natura di interesse, tra due operatori. Tali flussi sono calcolati sulla base di tassi di interesse predefiniti e differenti, applicati a un capitale teorico di riferimento. Questo strumento consente dunque a due controparti, che abbiano precedentemente assunto obblighi nei confronti di terzi a tassi di interesse distinti (ad esempio, una delle controparti ha un debito a tasso fisso, mentre l’altra a tasso variabile, con previsioni di tassi rispettivamente in diminuzione o aumento), di ristabilire l’equilibrio tra i due importi al termine di ogni periodo di maturazione degli interessi. Questo tipo di swap può essere utilizzato per indicizzare i mutui ipotecari a tasso fisso. Generalmente, il contratto viene stipulato direttamente tra due intermediari finanziari, che si scambiano flussi di pagamento calcolati su un tasso fisso in cambio di un tasso variabile, applicato a un importo nominale prestabilito.


  • Currency swap.  Si tratta di un contratto stipulato tra due controparti che si scambiano, nel tempo, flussi di pagamento denominati in due diverse valute. Prevede uno scambio immediato di una determinata valuta, con l’impegno simultaneo di scambiare un importo di eguale ammontare e cambio, ma con segno opposto, ad una data futura prestabilita. La Corte di Cassazione ha definito il contratto di domestic currency swap come “il contratto aleatorio con il quale due parti si obbligano, l’una all’altra, a corrispondere alla scadenza di un termine, convenzionalmente stabilito, una somma di danaro (in valuta nazionale) quale differenza fra il valore (espresso in euro) di una somma di valuta estera altempo della conclusione del contratto e il valore della medesima valuta estera al momentodella scadenza del termine stabilito”. Tale strumento ha come obiettivo la protezione dell’operatore (cliente) dal rischio di fluttuazioni dei tassi di cambio tra diverse valute, durante il periodo che intercorre tra l’accumulo di un credito in valuta estera e la sua scadenza. La banca si obbliga a pagare, alla scadenza del credito, una somma che rappresenta la differenza di cambio rispetto al tasso di cambio al momento della stipulazione del contratto, garantendo così un guadagno per l’operatore nel caso in cui la valuta nazionale si rivaluti nel frattempo.


  • Equity swap. Si tratta di un contratto con il quale una delle parti coinvolte (solitamente una banca) paga alla controparte (solitamente l’investitore) il rendimento di un titolo azionario o di un indice. In cambio, la controparte paga un tasso d’interesse fisso o variabileall’intermediario, con una periodica regolamentazione dei flussi finanziari.

 

Derivati standard e Derivati OTC

 

Una delle principali classificazioni dei contratti derivati distingue tra contratti derivati standardizzati e contratti derivati Over The Counter (OTC).

 

I derivati OTC sono contratti non negoziati su mercati regolamentati, ma scambiati direttamente tra le controparti coinvolte. Gli accordi contrattuali non sono vincolati da alcuna restrizione poiché questo strumento finanziario è negoziato in un mercato libero. Per questo motivo, i contratti OTC possono essere oggetto di trattative personalizzate, anche se, nella prassi, è generalmente l’intermediario a determinare il contenuto essenziale del contratto. I mercati OTC sono costituiti da reti di intermediari connessi tramite sistemi informatici avanzati, caratterizzati da complessità e strutturazione avanzata. Generalmente, le transazioni avvengono tra traders che operano per conto di istituti finanziari o fondi d’investimento, come gli hedge fund, ed intermediari finanziari che fungono come controparti.

 

Al contrario, i derivati standardizzati sono negoziati su mercati regolamentati e, pertanto, sono soggetti a regole precise che influenzano inevitabilmente la struttura del contratto. Il testo contrattuale, che non ammette modifiche, viene imposto dalle piattaforme di negoziazione, limitando l’autonomia contrattuale al semplice atto di contrarre.

 

Equity derivatives

 

Gli equity derivatives sono strumenti finanziari che permettono di ottenere esposizioni sintetiche alle azioni di una singola società, a un insieme di azioni (basket), o a un indice, oppure a un insieme di indici. Affinché l’investimento sia effettivamente sintetico, è necessario che il contratto derivato preveda il regolamento in contante delle posizioni. Pertanto, solo i Total Return Equity Swap (TRES) sono idonei per la creazione di partecipazioni azionarie sintetiche, in quanto replicano con precisione l’andamento del sottostante azionario. Al contrario, forward e options devono essere combinati tra loro per costruire partecipazioni azionarie sintetiche, poiché singolarmente non consentono una replica perfetta dei movimenti azionari.

 

Equity Forward Transaction ed Equity Option Transaction


L'equity forward transaction è un contratto in cui l’oggetto della prestazione consiste nel pagamento di una somma di denaro pari alla differenza tra il valore di un insieme di azioni (o di un basket di azioni diverse) oppure di un indice borsistico azionario (index basket), calcolato al momento della conclusione del contratto (forward price), ed il valore dello stesso bene al termine della scadenza del contratto (settlement price). Normalmente, il regolamento avviene in contanti, sebbene talvolta sia previsto che avvenga mediante consegna dei titoli a fronte del pagamento del loro prezzo.

 

L’equity option transaction, invece, si riconduce alla disciplina dell’art. 1331 del Codice Civile. Nel caso di contratto con regolamento fisico, il venditore dell’opzione si obbliga a comprare o vendere una quantità determinata di azioni a un prezzo specifico, mentre il compratore dell’opzione ha il diritto, ma non l’obbligo, di esercitare tale compravendita a sua discrezione. Nel caso di regolamento in contanti, non avviene lo scambio di azioni, ma uno scambio di denaro, determinato dalla differenza tra il prezzo di esercizio e il valore delle azioni alla data di scadenza dell’opzione.

 

Equity Swap


Il contratto di equity swap deve ritenersi “un’operazione che consente di assumere una posizione in titoli azionari, in un paniere di titoli o in un indice, senza sostenere l’esborso necessario per l’acquisto dei titoli stessi, ma regolando di volta in volta con la controparte i flussi finanziari relativi ai titoli oggetto dell’operazione che matureranno nel corso del periodo convenuto”.

 

Per comprendere al meglio il funzionamento di tali strumenti finanziari, è possibile ricorrere ad un esempio. Si pensi ad un operatore di mercato che desideri investire in un portafoglio ampio e diversificato di azioni. Queste azioni potrebbero includere titoli di società quotate nelle borse europee e internazionali. La prima possibilità per l’investitore è quella di prendere in prestito lasomma necessaria ed effettuare l’investimento desiderato. In questa situazione, si otterrà un guadagno o una perdita a seconda della variazione di valore delle azioni, oltre a ricevere eventuali dividendi distribuiti dalle società in cui ha investito. Tale strategia comporta però degli svantaggi. In primo luogo, i costi di transazione per l’acquisto di un considerevole pacchetto azionario sono considerevoli. Inoltre, l’acquisto diretto delle azioni potrebbe avere implicazioni fiscali sfavorevoli, epotrebbe persino incontrare ostacoli o restrizioni normative. In alternativa, l’investitore può concludere con un intermediario finanziario un contratto che “replichi” il finanziamento bancario ed il successivo investimento in borsa. In ciò risiede l’essenza un equity swap.

 

Total Return Equity Swap


Il Total Return Equity Swap (TRES) rappresenta lo strumento d’elezione per le strategie di dissociazione tra proprietà economica e giuridica delle azioni, in quanto è in grado di replicare in modo preciso l’andamento di un titolo azionario. Attraverso la creazione di una partecipazione sintetica, il TRES permette di generare flussi di cassa identici a quelli generati dalle azioni sottostanti.

 

La dottrina è solita descrivere tale derivato ricorrendo allo schema contrattuale e alla terminologia sviluppati dall’International Swaps and Derivatives Association (ISDA), associazione che riunisce i principali operatori del mercato degli swaps.

 

Per mezzo di tale contratto, il contraente che assume una posizione corta (equity amount payer) si impegna a corrispondere alla controparte il cosiddetto total return, che include:

(i)  una somma equivalente ai rendimenti generati dalle azioni di riferimento (dividendi o altre distribuzioni);

(ii)  una somma che rappresenta la differenza positiva tra il valore della stessa quantità di azioni di riferimento al momento della scadenza del contratto e il valore che tali azioni avevano al momento della stipulazione del contratto.

 

Il titolare della posizione lunga (equity amount receiver), a sua volta, si impegna a versare:

(i) una somma calcolata applicando un tasso di interesse a un capitale nominale pari al valore dei titoli di riferimento al momento della stipulazione del contratto;

(ii)  una somma pari alla differenza positiva tra il valore iniziale delle azioni al momento della stipulazione e il loro valore alla scadenza del contratto.

 

È bene rilevare che il rendimento complessivo del titolo sottostante (total return) viene generalmente espresso come una percentuale, indicativa della performance del titolo rispetto al prezzo iniziale al momento della stipulazione del contratto. Questo tasso viene poi applicato ad un capitale teorico di riferimento, denominato equity notional amount. Parimenti, gli interessi dovuti dall’equity amount receiver sono solitamente determinati sulla base di un tasso interbancario di riferimento a livello internazionale (come il LIBOR o l’EURIBOR), maggiorato di uno spread.

 

I capitali teorici su cui si fondano le obbligazioni delle parti – vale a dire l’equity notional amount per la prestazione dell’equity amount payer e il notional amount di riferimento per la prestazione dell’equity amount receiver – possono differire quanto a valore, ma nella prassi tendono a coincidere, garantendo così una simmetria nei parametri utilizzati per il calcolo delle prestazioni contrattuali.


Dalla struttura contrattuale appena delineata, si evince come il soggetto in posizione lunga assuma un’esposizione economica analoga a quella derivante dalla titolarità del capitale di riferimento, beneficiando dell’incremento del valore delle azioni sottostanti e delle eventuali distribuzioni di dividendi da parte dell’emittente. In presenza di un aumento del prezzo delle azioni, i flussi di cassa a favore della parte lunga risultano positivi; al contrario, un calo del valore delle azioni determina flussi negativi.

 

Specularmente, la parte in posizione corta sopporta un rischio di segno opposto, coerente con una visione ribassista sull’andamento del titolo. In tale configurazione, ogni variazione positiva del valore delle azioni comporta un’obbligazione di pagamento nei confronti della controparte lunga, mentre una diminuzione del prezzo si traduce in un credito a proprio favore.

 

Gli altri meccanismi di decoupling


Il diritto civile e la prassi negoziale conoscono altri meccanismi che consentono una dissociazionetra proprietà economica delle azioni e diritti sociali da esse conferiti, tali da dare luogo ad un assetto comparabile a quello di una partecipazione sintetica. Alcuni di questi strumenti sono: il riporto, la vendita a termine di azioni, il pegno e l’usufrutto d’azione, il prestito titoli, il leasing azionario e la c.d. record date capture.


Il Riporto


Il contratto di riporto, disciplinato dall’articolo 1548 del Codice Civile, è “il contratto per il quale il riportato trasferisce in proprietà al riportatore titoli di credito di una data specie per un determinato prezzo, e il riportatore assume l’obbligo di trasferire al riportato, alla scadenza del termine stabilito, la proprietà di altrettanti titoli della stessa specie, verso rimborso del prezzo, che può essere aumentato o diminuito nella misura convenuta”.


Il contratto di riporto si distingue per la presenza di un duplice scambio tra le parti. In una prima fase, il riportato trasferisce al riportatore i titoli oggetto dell’operazione, ricevendo in cambio un corrispettivo determinato. A ciò segue un secondo scambio, previsto per una data futura prestabilita, in cui il riportatore restituirà i medesimi titoli al riportato, ricevendo in cambio il rimborso del prezzo inizialmente versato. Tale somma può essere soggetta a un incremento o a una diminuzione, in base agli accordi contrattuali precedentemente definiti.

 

Le finalità che spingono le parti a concludere un’operazione di riporto sono molteplici: il contratto può essere utilizzato per ottenere liquidità nel breve periodo, per garantirsi la disponibilità temporanea di determinati titoli (ad esempio in vista di un’assemblea societaria), oppure per perseguire obiettivi speculativi.

 

Sotto il profilo giuridico, il temporaneo trasferimento della proprietà dei titoli comporta una scissione della proprietà azionaria. Durante la vigenza del contratto, il riportato perde la titolarità giuridica dei titoli, benché, ai sensi dell’art. 1550, comma 1, c.c., continui a beneficiare dei diritti accessori a essi connessi, primo fra tutti il diritto ai dividendi eventualmente distribuiti nel periodo considerato. Inoltre, il riportato si fa carico del rischio connesso alle variazioni di valore dei titoli. Secondo quanto previsto dall’art. 1548 c.c., alla scadenza del contratto il riportatore è tenuto a ritrasferire i titoli al riportato, ricevendo in cambio il rimborso del prezzo inizialmente corrisposto, a prescindere dalle fluttuazioni subite dai titoli nel mercato.

 

In virtù di ciò, il riportato, pur avendo temporaneamente trasferito la proprietà giuridica dei titoli, conserva la titolarità economica degli stessi. Al contrario, il riportatore, sebbene divenga formalmente (e temporaneamente) proprietario delle azioni, non acquisisce i relativi diritti economici e, salvo patto contrario, non sopporta il rischio delle variazioni di mercato. Tuttavia, egli ottiene il diritto di voto, derivante dalla titolarità formale dei titoli, a meno che le parti non abbiano disposto diversamente.

 

Ne risulta una situazione di dissociazione tra proprietà giuridica e interessi economici, in cui il riportatore esercita il diritto di voto senza sopportare il rischio economico sottostante. Proprio per questo motivo, nella dottrina si fa riferimento a tale figura come empty voter, ovvero un soggetto che, come detto, pur potendo influenzare le decisioni assembleari, non partecipa agli effetti economici delle scelte deliberate.

 

Il Prestito titoli

 

Il prestito titoli presenta notevoli analogie con il contratto di riporto ed è divenuto uno strumento diffusamente utilizzato a partire dal 1994, anno in cui fu introdotto per la prima volta da Citibank. La sua diffusione è stata ulteriormente incentivata dall’estensione della cosiddetta liquidazione a contanti a tutti i titoli quotati in Borsa. Tale meccanismo impone la liquidazione immediata delle transazioni al momento del loro perfezionamento, presupponendo la disponibilità materiale dei titoli oggetto dell’operazione.

 

Nonostante il contratto di prestito titoli non sia espressamente disciplinato dal nostro ordinamento, ha ricevuto un importante riconoscimento a livello sovranazionale. In particolare, la normativa comunitaria lo definisce come “la transazione con la quale un ente o la sua controparte (prestatore) trasferisce titoli contro adeguata garanzia con l’impiego per chi riceve il prestito (prestatario) di restituire titoli equivalenti ad una data da stabilirsi o quando richiesto dal concedente il prestito, costituisce una concessione di titoli in prestito per l’ente che trasferisce i titoli e un’assunzione di titoli in prestito per l’ente a cui tali titoli sono trasferiti”.


L’operazione di prestito titoli si svolge secondo modalità ben definite: il prestatore trasferisce al prestatario i titoli oggetto del prestito, mentre il prestatario fornisce al prestatore una garanzia, che può consistere in una somma di denaro o in altri strumenti finanziari, maggiorata di un margine aggiuntivo (haircut) volto a coprire eventuali fluttuazioni di valore.

 

Nel corso del rapporto, il prestatore corrisponde al prestatario le commissioni correlate all'operazione. Alla scadenza dell’operazione, il prestatario è tenuto a restituire al prestatore un quantitativo equivalente di titoli della stessa specie e categoria; contestualmente, il prestatore restituisce al prestatario la garanzia ricevuta all’inizio del contratto.

 

Il contratto di prestito titoli si contraddistingue per i suoi effetti reali: con il trasferimento dei titoli, il prestatario ne acquista la proprietà, inclusi i diritti connessi, tra cui il diritto di voto. In virtù di ciò, anche il prestatario di azioni può essere qualificato come empty voter, ossia un soggetto che esercita il diritto di voto senza assumere il corrispondente rischio economico. Infatti, le variazioni di valore dei titoli continuano a riflettersi sul patrimonio del prestatore, che ne conserva la titolarità economica. Coerentemente con tale impostazione, durante l’intera durata del prestito, il prestatario è generalmente obbligato a retrocedere al prestatore qualsiasi provento derivante dai titoli trasferiti, come dividendi o altre distribuzioni deliberate dall’emittente.


La differenza con il riporto risiede nel sistema di garanzia. Nel prestito titoli non è previsto un prezzo in senso tecnico per il trasferimento, ed il collateral può essere costituito anche da titoli o da lettere di credito. Nel contratto di riporto, invece, il corrispettivo è obbligatoriamente in denaro. Il prestatore, inoltre, non ha la disponibilità del collateral che resta depositato per mero scopo di garanzia mentre il riportato può senza dubbio utilizzato il denaro ottenuto dal riportatore.


La principale differenza tra il prestito titoli e il contratto di riporto risiede nel sistema di garanzia adottato. Nel prestito titoli, infatti, non è previsto un corrispettivo in denaro per il trasferimento dei titoli; il collateral può consistere, oltre che in denaro, anche in titoli o lettere di credito. Al contrario, nel contratto di riporto, il corrispettivo è obbligatoriamente in denaro.


Un’ulteriore importante differenza riguarda la gestione del collateral: nel prestito titoli, il prestatore non ha la disponibilità del collateral, che resta depositato esclusivamente a garanzia dell’operazione. Nel caso del riporto, invece, il riportato può liberamente utilizzare il denaro ricevuto dal riportatore.

 

Le ragioni che spingono le parti ad intraprendere un’operazione di prestito titoli o di riporto sono molteplici: tra le più comuni vi è l’esigenza di acquisire titoli di una specifica categoria per coprire posizioni aperte (come nelle vendite allo scoperto o nelle operazioni di arbitraggio), ottenere la disponibilità temporanea di determinati titoli o migliorare la redditività del portafoglio.

 

Il ricorso al prestito titoli da parte dei proprietari di azioni, in particolare in prossimità delle assemblee, è ormai una prassi consolidata nel mercato. Gli investitori istituzionali, tramite contratti quadro di lunga durata, sfruttano questo strumento per prestare e riacquistare titoli quando necessitano di liquidità. Inoltre, spesso adottano sistemi automatizzati che gestiscono le operazioni di prestito per ottimizzare il processo.


In tale contesto, è comune che i prestatori non siano interessati agli aspetti legati alle decisioni strategiche delle società in cui hanno investito. Anzi, preferiscono trarre guadagno dalle commissioni ottenute attraverso il prestito dei titoli, piuttosto che partecipare alle assemblee societarie, consapevoli di non poter esercitare un’influenza significativa sulle scelte aziendali.


Il problema dell’utilizzo opportunistico del prestito titoli in prossimità delle assemblee societarie è ben noto. La possibilità che si verifichi un aumento dei voti dissociati dalla proprietà economica delle azioni ha spinto, fin dal 2007, l’International Corporate Governance Network a pubblicare una raccomandazione che considera il prestito titoli finalizzato esclusivamente all’esercizio del voto in assemblea una bad practice. L’ICGN ha inoltre sottolineato che l'esercizio del voto da parte di chi ha preso in prestito le azioni, e che quindi ha un interesse solo temporaneo nella società, può distorcere le decisioni assembleari.

 

Il Pegno e l’Usufrutto di Azioni


La costituzione di un diritto reale sulle azioni determina, come rilevato da parte della Dottrina, una sorta di separazione dei diritti derivanti dalla titolarità della partecipazione sociale, comportando di conseguenza una frattura degli interessi ad essa riferibili. Nel caso del pegno e dell’usufrutto, infatti, si verifica una duplicazione dei soggetti coinvolti, ciascuno con proprie aspettative e interessi relativi alla partecipazione sociale.

 

L’articolo 2352 del Cod. civ. stabilisce che, nel caso di pegno sulle azioni “il diritto di voto spetta, salvo convenzione contraria, al creditore pignoratizio”. Secondo la Dottrina e la Giurisprudenza di Legittimità, tale diritto di voto trova il suo fondamento diretto nella lettera della legge, e non ha, pertanto, una natura derivativa, non essendo legato al diritto del socio.

 

La titolarità del diritto di voto in caso di partecipazioni sociali costituite in usufrutto ha suscitato, soprattutto in passato, un ampio dibattito. Il legislatore ha risolto definitivamente la questione, stabilendo che, in caso di usufrutto delle azioni, il diritto di voto spetti al titolare del diritto parziario, salvo eventuali pattuizioni contrarie (art. 2352, primo comma, del Codice Civile). Pertanto, l’usufruttuario, così come il creditore pignoratizio, è titolare del diritto di voto iure proprio.


Risulta quindi evidente che né il pegno né l’usufrutto delle azioni comportano la creazione di posizioni di voto prive di contenuto economico. Entrambe le parti del diritto reale di garanzia, infatti, possono considerarsi proprietarie economiche delle azioni, poiché entrambe possiedono un interesse economico legato alla partecipazione sociale.

 

La Vendita a Termine di Azioni e il Leasing Azionario


Il Codice civile, inoltre, contiene alcune disposizioni in tema di vendita a termine di titoli di credito che trovano applicazione anche alla vendita a termine di azioni. Il negozio si articola nelle seguenti modalità: il venditore si impegna a cedere al compratore una specifica quantità di titoli di una determinata categoria alla scadenza del periodo concordato, mentre il compratore si obbliga a pagare il prezzo corrente alla data in cui è stipulato il contratto. Entrambe le parti basano le loro aspettative su una possibile variazione delle condizioni economiche dello scambio: il compratore spera che al momento della scadenza il prezzo di mercato sia in aumento; il venditore, invece, auspica una diminuzione. 


La vendita a termine di azioni rappresenta dunque uno strumento idoneo a determinare la dissociazione tra la partecipazione e il diritto di voto. Questo fenomeno è disciplinato dal Codice Civile, che regola l’esercizio di alcuni diritti durante la pendenza del termine. Gli interessi ed i dividendi maturati dopo la vendita spettano al compratore, che diventa quindi il proprietario economico delle azioni e detiene anche il diritto di opzione (artt. 1581-1582 del Cod. civ.). D’altro canto, il venditore rimane titolare del diritto di voto, nella misura in cui conserva la proprietà giuridica dei titoli. Tuttavia, il voto espresso dal venditore sarà privo di significato economico, in quanto l’interesse finanziario rimane in capo al compratore.


Il contratto di leasing azionario, invece, si configura come “un contratto atipico di finanziamento, riconducibile allo schema negoziale del leasing finanziario con la peculiarità di avere per oggetto valori mobiliari, vale a dire azioni o altri titoli rappresentativi del capitale di un ente collettivo”. Le operazioni di leasing azionario hanno l’obiettivo di permettere all’utilizzatore di ottenere immediata disponibilità del bene senza dover impiegare fondi propri o ricorrere a prestiti da terzi per l'acquisto. Queste operazioni possono essere paragonate alle transazioni di leasing traslativo, che coinvolgono beni non deperibili e che, al termine del contratto, conservano un valore residuo.

 

Record date capture

 

La record date è un istituto che è stato introdotto con l’attuazione della Direttiva 2007/36/CE, c.d. Shareholders’ Right Directive, avvenuta per il tramite del d.lgs. 27/2010. L’art. 7 della Direttiva prevede che “i diritti di un azionista di partecipare all’assemblea e di votare, in funzione delle sue azioni siano determinati dalle azioni detenute ... a una determinata precedente assemblea e di votare, in funzione delle sue azioni, siano determinati dalle azioni detenute ... a una determinata data precedente l’assemblea”.

 

L’articolo 2370 del Codice Civile, invece, prevede l’istituto del deposito delle azioni presso la sede sociale o le banche. Si stablisce, infatti, che “lo statuto delle società le cui azioni non sono ammesse alla gestione accentrata, può richiedere il preventivo deposito delle azioni presso la sede sociale o presso le banche indicate nell'avviso di convocazione, fissando il termine entro il quale debbono essere depositate ed eventualmente prevedendo che non possano essere ritirate prima che l’assemblea abbia avuto luogo. Qualora le azioni emesse dallesocietà indicate al primo periodo siano diffuse fra il pubblico in misura rilevante il termine non può essere superiore a due giorni non festivi”.

 

Per quanto riguarda le società quotate, l’art. 83-sexies del TUF stabilisce che la legittimazione all’esercizio del diritto di voto è attestata da una comunicazione spedita dall’intermediario all’emittente al termine del settimo giorno di mercato aperto precedente la data dell’assemblea. Inoltre, è stabilito che qualsivoglia registrazione in accredito e in addebito compiuta successivamente a tale termine non rilevi ai fini della legittimazione all’intervento e all’esercizio del diritto di voto.

 

È evidente come il sistema della record date possa prestarsi a potenziali abusi e comportamenti opportunistici. Si pensi, ad esempio, al caso in cui un investitore, una volta superata la data di registrazione, proceda alla vendita delle proprie azioni e assuma contestualmente una posizione corta sui medesimi titoli, scommettendo sulla loro svalutazione. In tale circostanza, l’investitore avrebbe interesse a esercitare il proprio diritto di voto per promuovere decisioni potenzialmente dannose per la società, configurandosi così come un negative voter.


Conclusione

 

L’uso sempre più diffuso degli strumenti finanziari derivati, nonché il ricorso a negozi e sistemi disciplinati dal nostro ordinamento, ha reso possibile la costruzione di partecipazioni azionarie sintetiche, consentendo di “svuotare” il diritto di voto legato alle azioni del relativo interesse economico, e di attribuire ad un soggetto terzo al rapporto sociale la proprietà economica delle partecipazioni sociali. Ne consegue la possibilità per l’azionista di esercitare il proprio diritto di voto “senza il freno della proprietà delle azioni” (e, dunque, libero dal rischio economico legato all’andamento della società partecipata). Al contempo, un “non socio” può partecipare attivamente alla gestione societaria come se lo fosse, beneficiando de facto degli stessi diritti di un azionista, ma rimanendo tuttavia occulto alla società e al mercato.

 

Il fenomeno della dissociazione non si è limitato a mere discussioni accademiche, ma ha suscitato anche l'interesse di legislatori e Autorità di Vigilanza di vari ordinamenti giuridici, specialmente a seguito di alcune note vicende giudiziarie.

 

In particolare, si è preso atto dei potenziali rischi che i fenomeni di empty voting e hidden ownership possono comportare in tema di governance societaria, trasparenza e corretto funzionamento del mercato. Infatti, oltre a scardinare il tradizionale principio di allineamento tra potere e responsabilità che dovrebbe sorreggere la partecipazione societaria, la dissociazione si presta facilmente agli abusi, con il pericolo di sconfinare in situazioni patologiche che alterano il corretto funzionamento dei procedimenti assembleari.  

 

Ad oggi, nonostante non siano mancati diversi interventi normativi, anche a livello europeo con le Direttive 2004/109/CE (c.d. Trasparency I) e 2013/50/UE (Trasparency II), il fenomeno della dissociazione rimane oggetto di discussione, non avendo ancora trovato soluzione definitiva.


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